l'accamosciato

Primo capitolo - Seconda Parte


Appena sotto il castello, nella piazzetta della Colleggiata di Sant’Andrea, la chiesa principale, c’era un mirabile palazzo che ancora ospitava residuati della casata dei Colonna, ramo locale di una famiglia nobiliare di antico lignaggio, riveriti Principi da tutti i palianesi. Lo stesso castello era intitolato a loro, ma apparteneva da tempo allo Stato. Concepito come fortezza militare, da molti decenni era un carcere. I paesani lo chiamavano semplicemente jo Forte.
Ai piedi del borgo vecchio, sotto le mura ancora vivaci e ben conservate, c’era il paese nuovo che si allungava, via via diradandosi fino al fondo valle, accompagnando le strade asfaltate che assecondavano il declino della collina.
Dal lato sud, tutti questi strati erano ben apparecchiati, in modo tale che arrivando dal basso si vedesse l’intero presepe: le case nuove, le mura, le case vecchie e infine, in cima, il castello Colonna.
Dal lato opposto, invece, qualche villetta, la sagoma del cimitero, la piccola tenuta agricola del carcere e subito il Forte che solo da questa via si poteva raggiungere in auto. La strada terminava davanti a un portone di legno, unico passaggio lungo tutta l’ampia circonferenza esterna del complesso carcerario: una muraglia alta, possente e ben difesa da diverse garitte.
Proprio questa via, quella meno gentile, ero quella che avevo percorso per giungere alla meta, dopo aver incrociato il corteo funebre e tratto i presagi del caso.
Il primo portone, neppure blindato, era difeso da un posto di blocco e dai tiratori posizionati sulle mura. Un pertugio minore permetteva ai visitatori appiedati di accedere all’interno, subito fermati dalle guardie. Questo era un passaggio obbligato per raggiungere i due edifici adiacenti.
Uno, quello più grande e di più recente costruzione, ospitava la direzione, gli alloggi e i servizi di ristoro per il personale. L’altro, era la sede dello spaccio cooperativo.
Il carcere vero e proprio si trovava una trentina di metri più in alto, dentro una seconda fila di mura interne che contenevano il corpo originale dell’antico castello. Dal primo ingresso non si poteva scorgere il secondo che evidentemente si trovava dalla parte opposta.
Nel complesso il carcere era una costruzione affascinante e anomala: le guardie dalle garitte controllavano dal basso verso l’alto i merli perimetrali dell’antico edificio, luogo obbligato per gli eventuali fuggiaschi disposti a calarsi con una corda dalle pareti a strapiombo, esponendosi alla mercé delle guardie sottostanti. Chi fosse riuscito nell’impresa aveva l’ingrato premio di ritrovarsi con un'altra fila di mura davanti e questa volta le garitte incombenti su di lui. Forse per questo, da Paliano non era mai fuggito nessuno.

***

Appena arrivati, dopo aver subito la perquisizione prescritta dal regolamento, ci indicarono il posteggio riservato: un piccolo fazzoletto d’asfalto privilegio di pochissimi e sempre, come volle specificare il Brigadiere che ci aveva accolto, per espressa autorizzazione del direttore.
«Me lo concedo!» risposi, ilare, ben sapendo che non ero ancora in carica.
Poi, finalmente, ci avviammo verso l’alloggio assegnatomi dal Ministero. La prima cosa che vedemmo, entrando nell’edificio demaniale, fu una lavagna impolverata con su scritto la tabellina del tre.
«Forse è un codice di sicurezza» sussurrai a Lucia, per dare un senso a quella visione inaspettata.
«Non proprio…» specificò il Brigadiere. «Fino a due anni fa, questa era la sede della Scuola elementare di Paliano».
Un vincolo palese e indissolubile legava il carcere e la società del luogo e non tardai a scoprire che ogni famiglia a Paliano vantava un congiunto o un parente prossimo fra il personale di servizio. Per molti, il penitenziario era l’unico sbocco occupazionale in un territorio assai povero e ad economia agricola.
Per questo, il mio primo tentativo di fare due passi per il paese si risolse in una toccata e fuga: ero troppo stranito dai cambiamenti per reggere il peso degli occhi di tutti addosso.

***

Le masserizie da Roma arrivarono due ore dopo di noi e prontamente le fecero scaricare direttamente nelle nostre stanze. Il lavoro fu svolto da due detenuti, sotto gli occhi vigili di un agente.
Fui colto da emozione: per la prima volta vedevo degli autentici galeotti! Per un attimo il loro apparire mi restituì le sensazioni che provavo da bambino quando, nella mia terra natale africana, vedevo la letè rassettare casa. Un senso di stupore di fronte all'idea che lei fosse uguale a me.
«Mamma guarda!» gridai un giorno, nel mezzo della mia infanzia, testimone di un incidente domestico. «La letè ha il sangue rosso come il nostro».
«Sembrano come noi…» fu il mio pensiero puerile e deluso, quasi mi aspettasi di scorgere nei visi di quei due caratteristiche prettamente lombrosiane: zigomi sporgenti, sopracciglia folte, sguardo bieco…
Niente di tutto questo, erano due individui pacati e pure di buon umore.
«Superiore» si rivolse uno dei detenuti all’agente. «Dove si deve montare il letto?»
«Aspetta che chiedo» fu la risposta colloquiale del interpellato.
La Legge di Riforma prescriveva l’obbligo del “Lei” a tutti, per non creare strane familiarità e per tutelare il rispetto della persona.
«Chissà quante cose studiate sul Regolamento e poi in galera…» pensai molto fugacemente, prima di tornare a cose più concrete:
«Per favore,» esortai. «Adagiate sulle reti le tavole anti – artrosi.»
«Che strana la vita» esclamò il detenuto a cui mi ero rivolto. «Prima eravate voi a mettere a noi il tavolaccio! Oggi è il contrario.»
Quel tentativo di umorismo cadde nel vuoto, la mia mente era altrove. Quell’epiteto servile, “Superiore”, rivolto dal detenuto all’agente all’improvviso risuonò nitido dentro di me. Provai una forte scossa emotiva. Un senso di rigetto e di trionfo insieme.
Ero dentro da poco tempo e già tutto era cambiato.


  
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Roberto Cavalli - Copyright 2012